Custodia cautelare e Mafia

L'aggravante dell'art. 7 d.l. 152/91 e il concorso esterno, fra Consulta e Cassazione

A quasi un anno dalla sentenza della Corte Costituzionale con cui è stata rilevata la illegittimità costituzionale dell'art. 275, c.III, secondo periodo, con riferimento all'ipotesi di delitti aggravati dall'art. 7 del d.lg n. 152 del 1991, la Corte di Cassazione ritorna sull'argomento precisando che la decisione della Consulta non può essere estesa anche alle ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa (v. artt. 110 e 416 bis c.p.).

Com'e noto la Corte Costituzionale con la sentenza n.57 del 29/03/2013 aveva dichiarato “l'illegittimità costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, c.p.p., come modificato dall'art. 2, comma 1 d.l. 23 febbraio 2009 n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), conv., con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009 n. 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. La norma censurata si pone in contrasto sia con l'art. 3 cost., per l'ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti in questione a quelli concernenti il delitto di cui all'art. 416 bis c.p. e per l'irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi riconducibili alle due fattispecie in esame; sia con l'art. 13, comma 1, cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; sia, infine, con l'art. 27, secondo comma, cost., in quanto attribuisce alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena” (v. sotto anche le altre massime della richiamata sentenza).
Secondo la Corte di Cassazione, sez. I pen. (con la sentenza n.2946 del 22.1.2014 che di seguito si allega), tuttavia queste riflessioni non possono operare con riferimento al reato di concorso esterno in associazione mafiosa, che è da tener ben distinto dall’ipotesi di commissione di un reato aggravato dall’art. 7 legge 203 del 1991 - aggravante per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo.
Infatti, il concorrente esterno è equiparabile a quella dell’ordinario partecipe del reato associativo, in quanto anche il primo assicura il raggiungimento dei fini cui mira il sodalizio criminoso e la sua condotta è pienamente espressiva dei connotati dilliceità previsti dall’art. 416-bis c.p.. Insomma, mentre chi realizza una specifica condotta di reato aggravata dalla finalità di agevolazione mafiosa esprime un disvalore limitato al singolo episodio incriminato, la condotta di chi concorre con l’associazione, pur non facendone parte, è espressione di una ben maggiore pericolosità sociale e non è per nulla irragionevole presumere che nei confronti di tali soggetti unica misura cautelare, per arginare in futuro la loro tendenza criminale, sia la custodia cautelare in carcere.
Ovviamente, nulla impedisce che tale presunzione di adeguatezza della misura cautelare possa essere superata mediante l’allegazione, da parte della difesa, di dati probatori e dimostrativi dell’assenza di esigenze cautelari nel caso concreto, ma in assenza di tali dati – e quindi in caso di mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte della difesa – resta ferma l’obbligatorietà della più grave misura cautelare

È costituzionalmente illegittimo l'art. 275, comma 3, secondo periodo, c.p.p., come modificato dall'art. 2, comma 1 d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, conv., con modif., in l. 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Premesso che le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'"id quod plerumque accidit", e premesso che la presunzione assoluta sulla quale fa leva il regime cautelare speciale non risponda, con riferimento ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416 bis c.p. o al fine di agevolare le attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, a dati di esperienza generalizzati, essendo "agevole" formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa, la disposizione censurata determina una ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti in questione a quelli concernenti il delitto di cui all'art. 416 bis c.p. e un irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare di diverse ipotesi e si pone in contrasto con l'art. 13, comma 1, cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale, e con l'art. 27, comma 2, cost., in quanto attribuisce alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena. Peraltro, posto che ciò che vulnera i parametri costituzionali richiamati non è la presunzione in sé, ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilevanza al principio del "minore sacrificio necessario", la previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria - atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio, suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario - non eccede i limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l'apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso (sentt. n. 41 del 1999, 139, 265 del 2010, 164, 231, 331 del 2011, 110 del 2012; ord. n. 450 del 1995)”.

Nelle ipotesi di delitti aggravati dall'art. 7 del d.lg n. 152 del 1991 non deve essere applicata la custodia cautelare in carcere nell'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”.

 

Allegato: Cass.IPen.n.2946:2014.pdf

Tag: Diritto Penale, mafia e aggravanti finalità/metodo mafioso



AddioPizzo

Addiopizzo è un movimento aperto, fluido, dinamico, che agisce dal basso e si fa portavoce di una “rivoluzione culturale” contro la mafia. È formato da tutte le donne e gli uomini, i ragazzi e le ragazze, i commercianti e i consumatori che si riconoscono nella frase "Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità".